La Cop26 si è conclusa e nonostante siano stati rafforzati alcuni paletti – per esempio l’importanza di contenere l’innalzamento delle temperature globali entro 1,5 °C rispetto ai 2 °C di Parigi – le aspettative di chi voleva impegni incisivi sono state disattese. In particolare, se da un lato lo stop al carbone è stato escluso, dall’altro non è stato istituito il “Glasgow Facility on Loss and Damage”, l’organismo richiesto da ben 134 paesi per garantire sostegno finanziario ai tanti paesi che già subiscono danni enormi a causa del collasso climatico.
Per permettere una transizione ecologica “rapida e duratura” c’è bisogno che i Paesi che si sono arricchiti sulle fonti fossili, oltre ad agire di più e prima degli altri, destinino parte del loro profitto proprio verso quel resto del mondo che per secoli è stato depredato delle risorse naturali e che ora soffre le conseguenze peggiori della crisi climatica.
Questo trasferimento di soldi e tecnologie deve garantire una transizione equa, giusta, che non lasci indietro nessuno. Come può avvenire?
Ci sono due modi: il primo era il fondo verde per il clima da 100 miliardi di dollari l’anno ai paesi impoveriti da investire in rendicontazione, capacity building, adattamento e mitigazione, dal 2020 al 2025, utili a supportare la transizione ecologica laddove mancano soldi e tecnologie. Era stato Obama durante la Cop15 a farsi garante di quell’impegno. Ma il documento finale della Cop26 “nota con rammarico” che neppure il target dei 100 miliardi al 2020 (sui 600 miliardi complessivi) è stato raggiunto.
In Scozia, tuttavia, i leader mondiali hanno trovato l’accordo per raggiungere questa cifra entro due anni, quindi entro il 2023. Ciò significa che già a fine 2022 si potranno fare le prime verifiche. Non solo: si è anche deciso che i finanziamenti da destinare all’adattamento dovranno raddoppiare e addirittura quadruplicare entro il 2030 rispetto ai 70 miliardi di dollari del 2021.
Loss & damage: di che cosa si tratta
Il secondo modo è quello richiesto dai governi dei paesi in via di sviluppo: ricevere risarcimenti legati ai danni che il riscaldamento globale sta già causando in molte aree del pianeta. Un concetto riassunto nell’espressione “loss and damage”, perdita e danni, che traduce il concetto di “giustizia climatica”, chiesto a gran voce dagli attivisti di tutto il mondo. Qualche esempio: chi paga i danni delle alluvioni mai viste prima in paesi dell’Africa subsahariana? Chi paga i danni causati all’agricoltura in Madagascar dove è in corso la prima carestia dovuta al riscaldamento globale e alla povertà? Chi paga il trasferimento di un popolo perché la sua terra è stata sommersa dall’oceano? Secondo questi paesi, dovrebbero pagare i veri responsabili. Ma anche su questo fronte non è stato deciso nulla.
Nel documento si “chiede al settore privato, alle banche multilaterali di sviluppo e ad altre istituzioni finanziarie di migliorare la mobilitazione della finanza”.
La finanza ambientale avrà quindi un ruolo fondamentale già nei prossimi anni.
E a Glasgow si sono messe tantissime idee sul tavolo: impegni come la Glasgow Financial Alliance for Net Zero, fondi di investimento dedicati, investimenti multilaterali attraverso Banca Mondiale (25 miliardi per i Paesi meno sviluppati) e Fondo Monetario Internazionale e nuovi strumenti finanziari creativi, come i 350 miliardi di green bond emessi fino a oggi. In questo campo la cooperazione allo sviluppo giocherà un ruolo fondamentale per mettere a terra progetti, soprattutto di adattamento come richiesto dai Paesi meno sviluppati e dagli Stati più vulnerabili.
Siamo lontani dall’obiettivo, ma c’è da scommettere che il tema tornerà alla Cop in Africa.
Tommaso Perrone – Direttore Responsabile di LifeGate
Emanuela Taverna – giornalista